Rocco Rosignoli, cantautore, calca le scene ormai da più di quindici anni. Polistrumentista, suona chitarra, violino, mandolino, oltre ad altri strumenti a corda, dal basso al bouzouki all’oud arabo, e si diletta con la fisarmonica. Musicista eclettico, ha pubblicato quattro dischi di inediti, un live, una raccolta di brani a carattere politico e una raccolta di musiche di matrice ebraica. I suoi testi sono frutto di un lavoro poetico e critico incessante, che trova sfogo anche nell’editoria – ha al suo attivo due raccolte di poesie e un saggio cinematografico dedicato al film “Il Laureato”, oltre al saggio L’arte di Leonard Cohen tra storia, musica ed ebraismo.

Rocco Rosignoli, eclettico artista, benvenuto su Rifugio Musicale! Diamo inizio a questa intervista con un tuo ricordo: racconta ai lettori un aneddoto legato alla tua carriera musicale.
Carriera è una parola grossa… è una vita in perenne bilico tra le cose belle e quelle, diciamo, meno belle. Che oggi, dopo tanti anni, son sempre meno, ma ricordo che anni fa mi ritrovavo spesso a suonare in teatri sparsi per l’Italia al sabato sera, e poi la domenica pomeriggio facevo concerti nei baretti della provincia di Parma. A suo modo è un tirocinio importante, perché in questo mestiere non c’è mai da dare niente per scontato!
Quanto ti senti parte dell’attuale panorama musicale di tendenza? C’è un momento storico preciso in cui avresti voluto vivere? Quale e perché?
Di recente ho letto un’autobiografia di Bruno Lauzi, che scriveva qualcosa tipo: “gli artisti che hanno cercato di essere moderni, hanno sempre rinunciato alla possibilità di essere eterni”. Ora, non ho la presunzione di credere che quel che faccio sarà eterno, ma so che inseguire la “modernità” a ogni costo fa perdere di vista il cuore del proprio lavoro di artista. Io credo di essere in controtendenza un po’ per vocazione, non lo faccio apposta, o per snobismo, ma ho sempre avuto gusti differenti da quelli dei miei coetanei. L’attuale panorama musicale di tendenza, per quel che vedo, è fatto molto di immagine e poco di sostanza. Non parlo di qualità artistica: sono certo che, per dire, perfino fra i trapper ci siano artisti validi; parlo proprio del modo in cui si parla di musica, si promuove la musica, si misura il successo dei cantanti: contano più i follower sui social dei concerti che fai. Non dico che sia un male, ma non è il modo in cui io intendo e vivo il mestiere della musica. Per me salire sul palco e mettersi in gioco è il sale stesso della vita.
Non credo che vorrei vivere in un altro periodo storico. Creiamo sempre delle proiezioni mitiche di un passato che ci sembra migliore del presente e del futuro, ma se poi vai a leggere quel che pensava chi quell’epoca la viveva, ti accorgi che la sua sensazione era sempre quella: che il passato fosse migliore del presente e del futuro. È un po’ la condizione umana.
Forse l’eccezione la scorgiamo in quel decennio rivoluzionario tra gli anni ’60 e gli anni ’70, un periodo in cui le lotte sociali hanno dato vita a un movimento di popolo e a una stagione di cambiamento che per tanti lasciava sperare in un futuro migliore del presente e del passato. E forse in quell’epoca il mio modo di scrivere avrebbe, come dire, “spiegato le vele al vento del tempo”… ma credo che riuscire a vivere il proprio tempo sia la cosa migliore che ci possa capitare.
Quanto il tuo luogo di origine, Parma, pensi abbiamo influenzato la tua musica, i tuoi pensieri e il tuo stile di vita?
Parma è una piccola città, convinta di essere molto importante. A volte tra parmigiani ci diciamo che più che una città è un paesone. Certamente ha influenzato la mia musica, perché è il contesto in cui avvenivano i miei ascolti di bambino, di ragazzo, e poi di uomo; è la città dove ho imparato a suonare, dove mi sono innamorato della musica e della canzone d’autore. C’era un ambiente ristretto qui, e io ci proiettavo le suggestioni francesi di Brel, immaginandomi una Parigi nei viali del parco ducale; un Greenwich Village tra i bar e le piazze dell’Oltretorrente; una sorta di Bronx nei quartieri popolari dove sono cresciuto; viaggi on the road per le strade di periferia. È un microcosmo in cui trovi tutto, e spesso è bellissimo; ma si può rischiare di rimanerci impantanati, e professionalmente per un musicista è assolutamente necessario uscirne – e non intendo tagliarlo fuori, o evitare di suonarci, sia chiaro! Piuttosto, bisogna avere anche tanti altri posti in cui portare la propria musica, una città non basta. Parma è il posto dove ancora oggi svolgo la mia vita, e dove voglio crescere mia figlia. Sono adatto a una vita di provincia, più che alla grande città. Spesso mi sento addirittura troppo larga Parma, e vorrei andare a vivere in montagna, dove ho una casa di famiglia. Poi magari dopo sei mesi cambierei idea, ma garantisco che la tentazione c’è!
E a proposito di influenze, parlaci del tuo nuovo album “Musica Straniera”. Perché fare un album di traduzioni di Leonard Cohen?
Tra il 2018 e il 2020 ho lavorato senza sosta a un saggio dedicato a Leonard Cohen. Volevo finalmente portare sulla pagina un’idea che mi girava in testa da anni, quella di mettere in relazione l’arte di Leonard Cohen con il suo retaggio ebraico. Io ho studiato l’ebraico per diversi anni, e dal 2017 collaboro con il Museo Ebraico Fausto Levi di Soragna. Inoltre, mi occupo di musica di matrice ebraica, per il museo ma non solo: ho suonato a lungo con Lee Colbert, la cantante di Moni Ovadia, e oggi lavoro con Miriam Camerini, con la quale portiamo in scena i suoi spettacoli dedicati al mondo ebraico (ma non solo). Insomma, volevo mettere a frutto queste mie conoscenze per raccontare al mondo quanto della grande arte di Cohen abbia un debito diretto verso la sua cultura d’origine. Quando il saggio ha trovato casa presso l’editore Mimesis, ho pensato di celebrare l’uscita editoriale pubblicando un CD con le traduzioni che negli anni avevo realizzato.
Stai già lavorando a nuovi brani da proporre in futuro? Vuoi darci qualche anticipazione?
Ci sono nuovi brani, ma per ora non ci sono in progetto nuovi album. Al momento, oltre a far conoscere questo mio lavoro su Cohen, mi sto dedicando allo spettacolo Le belle bandiere che ho allestito insieme a Miriam Camerini nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini. E sto finendo di scrivere un saggio dedicato a Francesco Guccini, che uscirà per le edizioni Il Foglio, con cui ho già pubblicato due libri di poesie e un saggio cinematografico.
Cosa spaventa Rocco Rosignoli? Quale è la tua più grande paura?
Ho una bimba piccola, ed è proprio vero che quando hai un figlio le prospettive cambiano. Oggi le mie paure riguardano il mondo che riceverà in eredità dalla nostra generazione. Non è un gran bel mondo.
Rocco Rosignoli, la nostra intervista è giunta al termine ed io ti ringrazio per essere stato con noi. Grazie e a presto!!!
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